Il 9 maggio di ogni anno è un giorno speciale per molti Paesi dell’ex blocco sovietico. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in questa data si celebra la “Giornata della vittoria”, per ricordare la resa della Germania nazista di fronte alle truppe sovietiche. Durante questa sorta di 25 aprile d’oltre-cortina, vengono organizzate parate militari e sfilate nelle maggiori città, da Chișinău a Biškek, da Yerevan a Mosca.
Dopo un periodo nel corso degli anni novanta in cui gli eventi mantennero un profilo basso, dal 2005 il presidente russo Vladimir Putin decise di intensificare le celebrazioni, al fine di alimentare tra i cittadini un sentimento di valore storico e culturale per la valorosa vittoria nella Grande Guerra Patriottica.
Ai quasi venti Paesi per cui il Giorno della vittoria è festa nazionale, si aggiunge anche la Transnistria, una repubblica non riconosciuta dalla comunità internazionale e appartenente de iure alla Moldavia. Autoproclamatasi indipendente nel 1990, questa piccola striscia di terra stretta tra le anse del fiume Dnestr e il confine ucraino, possiede un apparato amministrativo indipendente, un proprio “Soviet supremo” che funge da parlamento, un corpo di intelligence chiamato KGB e una moneta inesistente al di fuori dei confini, il Rublo Transnistro.
Sono circa 500.000 gli abitanti nella regione, suddivisi quasi equamente in tre comunità: quella moldava, quella russa e quella ucraina. Ciononostante, la componente filo-russa è dominante nella quasi totalità dei ruoli istituzionali e non, nella vita politica, nella lingua e nel paesaggio urbano: è sufficiente attraversare il confine per veder sparire definitivamente ogni richiamo al tricolore moldavo ed immergersi in un tripudio di cirillico e bandiere russe.
È una terra strana la Transnistria, a tratti contraddittoria, sospesa in un limbo temporale tra passato e presente. A fianco di una realtà rurale tra le più povere d’Europa, si accosta in città un modello di sviluppo che strizza l’occhio ai diktat della società consumista e globalizzata; così mentre nella capitale gli scintillanti filobus hanno il wifi gratuito a bordo, in campagna imperversano ancora carretti e vecchie Lada.
Era festa vera il 9 maggio per le vie della capitale Tiraspol: intere famiglie passeggiavano avanti e indietro sul corso principale, vestendo divise militari e portando cartelli con le fotografie in bianco e nero dei parenti caduti in guerra. Per le strade un continuo viavai di automobili di grossa cilindrata sventolava bandieroni russi, mentre nel centralissimo corso 25 ottobre i festoni bianco-blu-rosso rubavano quasi la scena al tricolore nazionale, l’ultimo al mondo rimasto con falce e martello sul proprio vessillo. A due passi dalla sede del Soviet Supremo, un piccolo palco ospitava le performance artistiche di bambini e ragazzi, impeccabili nelle loro rievocazioni teatrali e nei balletti in uniforme.
Ovunque, i segni di quello che sembra essere un naturale matrimonio con il governo di Mosca, sugellato anche da un contingente di 1.500 soldati russi sparsi sul territorio e liberi di presidiare le strade armati di tutto punto.
La simbologia comunista che per decenni ha caratterizzato ogni elemento del tessuto urbano – dagli autobus ai palazzi istituzionali – sembra aver seguito con il passare del tempo, un bizzarro fil rouge in cui a fianco di falci e martelli si è accostata l’iconica effigie del presidente russo Vladimir Putin. Sempre più onnipresente, lo si ritrova stampato sulle carrozzerie dei SUV o sulle t-shirt, intento ad accarezzare un tenero cagnolino.
Quello con Mosca è un legame che ha radici profonde e che non si è sviluppato esclusivamente per ragioni di tipo etnico o linguistico. La Russia, oltre a sostenere militarmente e politicamente la Transnistria, è stata per più di vent’anni la principale fonte di sostentamento per la fragile economia della regione, basata perlopiù sull’industria pesante e su un settore agricolo arretrato: si conta che tra contributi diretti e indiretti, i fondi russi abbiano coperto in certi periodi fino al 95% del PIL.
Al contempo, in cambio delle onerose sovvenzioni, Mosca può godere di un prezioso avamposto in una regione dal grande peso strategico. Solo per farsi un’idea, il porto ucraino di Odessa dista meno di 100 chilometri dalla dogana transnistra.
Negli ultimi anni, la crisi del rublo e il periodo di recessione hanno pesato gravemente sulle sovvenzioni d’oltre confine, costringendo Mosca a chiudere i rubinetti e spingendo Tiraspol ad unirsi alle tanto criticate norme del Deep and comprehensive free trade agreement, l’area di libero scambio con l’UE già in vigore dal 2014 nel resto della Moldavia.
Nella repubblica de facto che guarda con insistenza verso Mosca e che dopo gli eventi in Crimea ha richiesto la tanto desiderata annessione alla Russia, rimane una situazione di stallo che la vede dipendente da spinte politiche esterne spesso inconciliabili. Il desiderio di indipendenza, o di annessione alla Russia, e le complicate relazioni con i vicini di casa ucraini e moldavi, lasciano la repubblica de facto a ristagnare in una palude da cui sembra difficile fuoriuscire in tempi brevi.
Nonostante a gennaio 2017 ci sia stato uno storico incontro dopo 8 anni di silenzio tra il presidente moldavo Dodon ed il corrispettivo transnistro Krasnosel'skij, le relazioni con Chișinău rimangono congelate in una situazione di stallo, mai veramente risolta dopo il cessate il fuoco del 1992.
Emblema di questa situazione d’impasse è la questione dei passaporti transnistri: per espatriare, i cittadini sono costretti a richiedere un passaporto russo o moldavo, visto che quello nazionale è valido esclusivamente tra i confini domestici. Alcuni ne tengono addirittura due, nella speranzosa attesa di capire se i venti che spazzeranno la regione in futuro soffieranno da est o da ovest.