Dopo due ore di curve, scossoni, sterrati e precipizi sfiorati, lungo una valle dove si incontreranno sì e no 30 case, uno non penserebbe mai di trovare un simile delirio. Invece, come spesso accade in Albania, è proprio lo scenario più improbabile, quello che poi ti si para davanti.
Koman: un piccolo villaggio a circa 55 chilometri da Shkodër (capoluogo dell’Albania settentrionale, ndr.), raggiungibile in auto dopo un viaggio di circa due ore lungo una strada in condizioni disastrose. Intorno, una cordigliera di montagne selvagge, dai toni rossi e accesi; sotto, il letto del fiume Drin, ampio come un lago.
A Koman negli anni ottanta furono edificate una diga alta 130 metri ed una grande centrale elettrica per sfruttare il corso del Drin, il fiume più lungo d’Albania. Con la costruzione della diga, le strette valli a monte di Koman furono sommerse dalle acque e venne creato un immenso bacino artificiale. Molti villaggi sparirono, in tanti emigrarono verso Shkodër, mentre i più coriacei furono costretti a ricostruire le proprie case più in alto, sui fianchi dei monti. Una cinquantina di chilometri più a nord, a Fierzë, la sponda settentrionale del lago è delimitata da un’altra centrale elettrica, e da una diga ancor più alta. In un paese volto all’autarchia, quale era l’Albania di Enver Hoxha, lo sfruttamento dei numerosi fiumi del nord rappresentava senza dubbio una delle poche soluzioni per avere energia senza dover bussare alle porte dei vicini.
Tra le due centrali venne attivato un servizio di traghetti per la popolazione locale, che oggi sta diventando sempre di più meta di un turismo di nicchia grazie alla maestosità dei paesaggi che si incontrano lungo il percorso. Alle 9 del mattino le imbarcazioni partono da Koman e giungono a Fierzë intorno a mezzogiorno, per poi tornare indietro intorno alle 14. Ma ritorniamo all’inizio.
Dopo aver superato le case di Koman, la strada disegna finalmente i suoi ultimi tornanti prima di addentrarsi nel ventre delle montagne con un rudimentale tunnel scavato nella roccia. Sembra di guidare dentro le Grotte di Frasassi. Dopo qualche decina di metri, lo scenario si fa – se possibile – ancora più surreale: all’uscita, la galleria si trasforma nella piazza di un mercato, affollata da decine di persone intente a salutarsi, chiacchierare, urlare, vendere fichi, olive e formaggio. Uno stuolo di capre, cani, furgoni e imbarcazioni di diversa taglia, completano il quadro.
Comune denominatore della scenetta, la totale mancanza di spazio. Dall’uscita del tunnel non si possono fare più di venti passi in avanti, a meno di non voler finire nelle gelide acque del bacino artificiale. Il trambusto è totale, e l’operazione di imbarco dei veicoli sul traghetto è degna di una partita di tetris. Ad un certo punto per caricare un’auto familiare fuori sagoma, tutto l’equipaggio prova ad incastrare a mano la macchina tra la prua ed un furgone, facendola letteralmente rimbalzare sul piano di carico come una palla da basket.
Non ci sono solo i traghetti di grossa taglia, ma anche una serie di piccoli motoscafi e barchette da 20-30 persone, che collegano Koman con una serie di minuscoli villaggi sparsi sulle alture a ridosso del lago. La maggior parte di questi agglomerati – e credetemi, non è un iperbole – isolati dal resto del mondo, non ha altre vie di collegamento al di fuori delle imbarcazioni. Nessuna strada, nemmeno sterrata; luoghi impervi raggiungibili solo con mulattiere acclivi o, più facilmente, dall’acqua.
Al porto c’è anche Rozafat, un uomo baffuto e asciutto che alla centrale elettrica di Koman ha lavorato per oltre 10 anni. Nel 1992, insieme a migliaia di altri compatrioti, è venuto in Italia a cercare lavoro, trovando un impiego tra le colline dell’Astigiano. Prima di emigrare, Rozafat lavorava 5 giorni a settimana alla centrale. Al venerdì, per tornare a casa dalla madre, si imbarcava su un piccolo motoscafo fino al fianco di una non meglio precisata montagna. Da qui imboccava un sentiero che, dopo un valico e oltre tre ore di cammino, conduceva al suo villaggio. Al lunedì mattina, sveglia alle 5 e mezza, percorso al contrario e via un’altra settimana di lavoro. Oggi, dopo 10 anni di centrale e 15 di vigna in Italia, vive a Shkodër con la moglie e i due figli. Troppo dura la vita a Koman a detta sua, e come dargli torto?
Sulla banchina c’è un grande gruppo di uomini e donne dai tratti somatici marcati e spigolosi. Indossano vestiti eleganti e ordinati, anche se impolverati dall’aria di campagna. Si imbarcano tutti sul piccolo motoscafo che porta l’insegna “Toplana”, un villaggio posto all’incirca a metà strada tra Koman e Fierzë. Contrariamente al traghetto che porta le auto, questo è una specie di servizio omnibus che ferma in tutti i villaggi e sugli approdi da cui partono i sentieri per le montagne. Dopo aver caricato i sacchi di farina e lo scatolame, gli ultimi calorosi saluti e poi la partenza.
Il traghetto procede con un incedere tutt’altro che incalzante: mezz’ora, un’ora, un’ora e mezza circondati da scenari naturali di rara bellezza, in cui la costante è un vento freddo che soffia da nordest. Ogni tanto compare qualche casa isolata sui fianchi dei monti, lungo anfratti in cui tutto immagineresti di poter trovare, tranne che tracce antropiche. La “Toplana” procede al nostro fianco, superandoci ripetutamente e fermandosi di volta in volta per far scendere i passeggeri che, con i loro sacchi, imboccano i sentieri e scompaiono nella vegetazione fitta fitta.
Alla terza ora di viaggio le montagne che circondano il lago si fanno meno austere e in lontananza un traghetto arrugginito annuncia l’arrivo al “porto” di Fierzë. Fierzë che è anche la porta della provincia di Tropoja, uno dei luoghi più remoti dell’Albania e dell’intera Europa. Ricompare pure la strada: da un lato si va verso Bajram Curri, le bellissime montagne di Valbona e il Kosovo, dall’altro si ritorna a Shkodër. 150 chilometri di curve da percorrere in 4 ore e mezza lungo un paesaggio non meno spettacolare.
Anche allo sbarco si ripetono le operazioni di incastro dei veicoli, mentre da nord giungono i Furgon con i turisti locali che tornano dalle vacanze sui monti di Valbona. Neanche il tempo di una birra fresca che l’equipaggio ricomincia con le operazioni di imbarco per il viaggio di ritorno: urla, strepiti, un gran casino, sfrizionate, pattoni sulla carrozzeria…